Private Equity & M&A Executive Agenda 2025 | Beyond the Numbers – Cultura, governance ed execution: i veri moltiplicatori di valore nei deal

Insight · 14 Luglio 2025

1. Oltre i numeri: cosa manca davvero nella due diligence tradizionale
Ogni operazione parte da una promessa implicita: comprare valore futuro sulla base di dati passati e presenti. I fondi si muovono con rigore, affiancati da team legali, advisor finanziari e modelli di simulazione avanzati. Ma ancora oggi, nella maggior parte dei deal italiani, manca una lettura sistemica e strutturata di ciò che fa funzionare (o bloccare) davvero un’impresa: la dimensione organizzativa e culturale.
Gli insuccessi nei deal non derivano quasi mai da un EBITDA sovrastimato o da una posizione finanziaria netta sottovalutata. I veri fallimenti si annidano altrove: nella dipendenza da un fondatore non sostituibile, in un middle management troppo debole, in una cultura aziendale che rigetta qualsiasi cambiamento imposto dall’esterno.
In altre parole: i deal falliscono per motivi umani e organizzativi, non per errori contabili.

2. Cultura, governance e leadership: le metriche invisibili
Nei processi di due diligence, il tempo è una risorsa scarsa e il focus tende a premiare ciò che è oggettivamente misurabile. Tuttavia, alcune delle variabili più determinanti per il successo post-deal si nascondono proprio tra le pieghe invisibili dell’organizzazione.
Oggi i fondi chiedono strumenti per leggere:
• Il modello decisionale reale (non quello disegnato sull’organigramma)
• Il grado di autonomia e accountability dei team operativi
• Il livello di allineamento strategico tra proprietà, management e struttura
• La tenuta culturale e la propensione al cambiamento
• La reale profondità della seconda linea
La verità è che non esiste un metodo standard per mappare questi elementi. Servono occhi esperti. E non basta un background finanziario: serve esperienza diretta nella gestione e trasformazione delle aziende.

3. Il Funders’ Trap: quando la leadership è il vero rischio sistemico
In oltre il 70% dei deal su PMI analizzati da Envisa negli ultimi tre anni, la dipendenza dal fondatore è risultata il primo fattore critico post-deal. Questo non significa solo che il fondatore decide tutto. Significa che tutta l’azienda è costruita attorno alla sua persona: know-how implicito, relazioni, controllo operativo, legittimazione interna.
Ecco il paradosso: spesso il fondatore è anche il primo ad avere in mente l’exit. Il rischio? Che con la sua uscita crolli l’intera impalcatura. E non sempre la soluzione è trovare un sostituto. In molti casi, non basta una persona sola per reggere il passaggio. A volte servono tre figure diverse. E anche così, il sistema non regge.
Per questo è fondamentale anticipare il funder stress test in fase pre-deal. Simulare scenari di assenza, ridefinire i poteri, osservare le reazioni del team. Solo così si può capire se esiste un’organizzazione dietro al leader, o solo una sua proiezione.

4. Il rischio organizzativo non è un’opzione: è un moltiplicatore implicito
Mentre i multipli di settore si polarizzano e la concorrenza tra investitori aumenta, i fattori soft diventano sempre più determinanti nel pricing. Non come extra analitico, ma come correttivo strategico.
Un’azienda con un EBITDA di 8 milioni, ma totalmente dipendente dal fondatore, con un middle management debole e un sistema di KPI assente, non vale come un’azienda con 7 milioni di EBITDA ma una struttura già “partecipata” e industrializzata.
In altre parole: il rischio organizzativo è il nuovo multiplo. E la sua lettura non può essere lasciata a sensazioni o colloqui informali. Va integrata in modo strutturato nella due diligence.

5. Perché i modelli classici non bastano (e cosa serve davvero)
La strategic due diligence tradizionale – anche quando condotta da advisor esperti di settore – analizza i driver prospettici, i trend e la competitività. Ma difficilmente scende in profondità nella cultura aziendale, nei modelli di leadership o nei meccanismi decisionali reali. Eppure, è lì che si gioca l’efficacia dell’execution post-deal.
Comprendere questi aspetti richiede esperienza operativa, non solo analitica: aver gestito aziende, interpretare segnali deboli, riconoscere incoerenze organizzative prima che diventino colli di bottiglia.
Un pattern ricorrente, ad esempio, riguarda imprese che appaiono scalabili su carta – margini solidi, team motivato, struttura chiara – ma che, a un’analisi comportamentale, rivelano una dipendenza sistemica dal fondatore. Decisioni critiche, escalation operative, clienti chiave: tutto passa da lui. Anche con sistemi avanzati e KPI formali, la resilienza organizzativa è virtuale. In casi come questi, la probabilità di execution failure post-deal aumenta significativamente, indipendentemente dai numeri.

6. Cosa misurare e come: verso una due diligence aumentata
Integrare questi aspetti richiede una metodologia rigorosa ma adattiva, che sappia combinare elementi qualitativi, osservazione sul campo, interviste strategiche e simulazioni di scenario.
Tra i principali elementi da includere:
• Governance reale e sistemi decisionali
• Capacità della seconda linea di agire in autonomia
• Coerenza tra strategia dichiarata e comportamenti operativi
• Propensione al cambiamento e reazioni alla delega
• Mappe di rischio organizzativo: chi fa cosa, con quali alternative

L’obiettivo non è costruire un nuovo report da allegare al fascicolo. L’obiettivo è ridurre il margine di sorpresa, aumentare la prevedibilità dell’investimento e progettare con maggiore lucidità il post-deal.

7. Verso un nuovo standard nell’advisory industriale italiana
Il mercato del private equity sta evolvendo. I fondi non cercano più solo analisti o valutatori: richiedono execution partner. Figure in grado di integrare la dimensione finanziaria con una lettura profonda delle dinamiche organizzative e operative. Capacità non comuni: comprendere come un’impresa funziona davvero, dove si annidano le rigidità, quali leve attivare per garantirne la scalabilità.
In questo scenario, emerge la necessità di un modello di advisory industriale più maturo, strutturato su tre direttrici chiave:
1. Organizational Due Diligence integrata
Un assessment pre-deal che affianchi alla valutazione dei numeri la lettura della cultura aziendale, dei modelli di leadership e della governance effettiva.
2. Leadership Stress Test
Analisi della dipendenza da figure chiave e della reale delegabilità dei processi critici. Verifica della resilienza organizzativa in scenari di scalabilità.
3. Blueprint industriale post-deal
Definizione, già durante la due diligence, di un piano operativo strutturato per i primi mesi post-closing, finalizzato a rafforzare governance, leadership e struttura manageriale.
Non si tratta di aggiungere un modulo al processo di due diligence tradizionale, ma di ridisegnarne l’architettura. In un mercato in cui il valore si genera – o si disperde – nell’execution, il futuro dell’advisory sta nella capacità di operare dentro le organizzazioni, non solo sopra i bilanci.

Conclusione
Le operazioni di M&A richiedono oggi una comprensione più profonda delle organizzazioni target. Gli intangibili – cultura, governance, dipendenze critiche – sono diventati driver strategici, non più variabili accessorie.
Integrare queste dimensioni nella due diligence non è un’opzione, ma un requisito per valutare la reale scalabilità e sostenibilità del valore.
Farlo richiede un approccio diverso: esperienza operativa, capacità di lettura sistemica, visione strategica oltre l’analisi numerica.
Solo così la due diligence evolve da fotografia a diagnosi predittiva. Ed è su questa capacità che si giocheranno i deal di maggiore successo nei prossimi anni.

A cura di Andrea Peschiuta
Founder di ENVISA

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